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La battaglia di Benevento e la capitolazione degli Svevi

by Giuseppe Perrina

La battaglia di Benevento, miniatura della Nova Cronica di Giovanni Villani.

L’antefatto

Il 5 febbraio 1265 con l’elezione di Papa Clemente IV, un antico consigliere di re Luigi IX “Il Santo”, la politica avversa agli Svevi promossa dai Pontefici predecessori Alessandro IV e Urbano IV divenne ancor più decisa. Dopo alcuni tentativi di ottenere l’aiuto inglese, ma senza successo, Roma si rivolse alla Francia e a re Luigi IX che favorì per la candidatura alla corona di Sicilia il fratello Carlo. Alla fine di maggio dello stesso anno Carlo, imbarcatosi a Marsiglia, giunse a Roma e venne accolto con grandi onori: ricevette la carica di senatore e il titolo di re della Sicilia, gli fu consegnata la bandiera di San Pietro come segno della sua dipendenza feudale dal Papa e prestò giuramento. Con il sostegno finanziario dei collegati guelfi d’Italia settentrionale e del Pontefice Clemente IV la spedizione militare, valicate le Alpi e superata qualche resistenza nel nord della Penisola, giunse a Roma alla fine del 1265 e ricevuta la benedizione solo dai cardinali il 20 gennaio 1266 partì alla volta del meridione d’Italia passando per la dorsale tirrenica.

Manfredi agli inizi del 1266 rafforzò le guarnigioni di Rocca d’Arce e San Germano al fine di rallentare l’avanzata di Carlo, logorarne le truppe, che si addentravano in pieno inverno in un territorio con scarsissime risorse, e sconfiggerlo in uno scontro decisivo. Alla notizia che Carlo si accingeva ad invadere il regno cominciò a venir meno la fedeltà di alcuni suoi alleati e proprio a Rocca d’Arce suo cognato, Riccardo di Caserta, non oppose la benché minima resistenza all’esercito carolino. Il 12 febbraio d’Angiò trovò a San Germano il suo primo vero ostacolo: una guarnigione di non meno di sei mila uomini guidati da Giordano di Anglano. Era indispensabile espugnare la fortezza per non lasciarsi alle spalle un simile contingente. L’assedio al caposaldo Svevo arrivò con non molte difficoltà e sui bastioni venne issata la bandiera di Francia.

Manfredi era acquartierato a Capua e attendeva l’arrivo dei rinforzi dall’Abruzzo, promessi dal nipote Corrado d’Antiochia. Carlo costatando che passando per la Liburia avrebbe dovuto vedersela con la possanza della duplice torre sul Volturno all’ingresso della città di “Capova” decise di penetrare in Campania imboccando la strada interna (Venafro, Alife, Piedimonte e Telese) che porta a Benevento e continuare l’avanzata in Puglia per impedire al nemico di ricongiungersi con l’esercito saraceno di stanza a Lucera. Il re Svevo per sbarrare la strada al nemico abbandonò, pare precipitosamente, Capua e si diresse a Benevento attraverso la via Appia per attaccare il prima possibile l’esercito Angioino sfinito per il disagevole percorso. Giunto a Benevento Manfredi scelse con molta cura il luogo dove porre il campo e schierare l’esercito, si posizionò infatti alla confluenza del Sabato e del Calore in modo da esser difeso di fronte dai due fiumi e alle spalle dal ripido colle del Gran Potenza. Il 25 febbraio l’esercito di Carlo dopo aver superato “le difficoltà delle vie incassate fra gole” e superato il ponte Foeniculum si accampò sulla collina di San Vitale, dove poter seguire le mosse delle schiere nemiche.

Il corpo di spedizione franco-provenzale era composto da circa diecimila unità, Guy e Filippo di Montfort signore di Castres erano al comando di contingenti linguadochiani; il maresciallo Ugo di Mirepoix e Guglielmo Estendart a capo di truppe francesi, provenzali e dei rinforzi romani; Gilles de Traisignes e Roberto III di Fiandra a capo di contingenti fiandrini, del Brabante, Hainaut e Piccardia; un corpo separato era costituito dagli alleati toscani ed era condotto da Guido Guerra. Nelle schiere nemiche spiccavano diecimila tra saraceni e italo-meridionali, forse comandati da capi locali; a questi si aggiungevano milleduecento mercenari tedeschi guidati da Giordano di Anglano; un migliaio di mercenari italiani e trecento saraceni che obbedivano a Giordano Lancia, zio di Manfredi, affiancato da Bartolomeo Lancia; altre millequattrocento unità costituite da feudatari meridionali erano guidate dallo stesso Manfredi e da un amico romano, il nobile Tebaldo Annibaldi .

Lo scontro

Il vantaggio numerico, il miglior posizionamento delle truppe sul terreno di scontro e la stanchezza dell’esercito nemico, provato dalla fatica del percorso, avevano dato l’illusione di una vittoria alla portata dei collegati Svevi. 

“Re Carlo … disse con alta voce a’ suoi cavalieri << Venus est le iors ce nos avons tant desiré>> e fece suonare le trombe”, a quel punto la battaglia cominciò e citando le parole del cronista Malaspina “ forti contro forti fortissimamente lottarono”. Secondo il cronista guelfo Villani la strategia manfredina di attaccare immediatamente, senza aspettare i rinforzi promessi dai baroni abbruzzesi, si rivelò un errore fatale. Al primo attacco la sorte sembrò arridere a Manfredi, i francesi indietreggiarono di fronte al furibondo attacco degli abili arcieri Saraceni. Carlo a questo punto schierò la cavalleria, esperta negli scontri ravvicinati, e riuscì a rintuzzare l’ondata nemica. Dal campo Svevo giunse il comando di far avanzare la cavalleria equipaggiata con la nuova armatura a piastre. I mercenari tedeschi guidati da Giordano di Anglano, grazie alla corazza a piastre, sembrarono invincibili fino a quando però i francesi non si resero conto che l’armatura lasciava indifesa l’ascella quando si alzava il braccio spadato nell’atto di colpire. Gli Angioini armati di spade “a stocco”, colpendo i nemici nel punto scoperto li costrinsero presto a ripiegare. A questo punto Carlo decise di subentrare in prima persona insieme al contingente al suo diretto comando, dando così il colpo di grazia all’esercito nemico ormai sterminato. Manfredi davanti alla disfatta dei suoi che combattevano al grido di “Svevia” decise di gettarsi nella mischia per trovare una morte gloriosa con le armi in pugno. Nell’atto di indossare l’elmo con le insegne regali l’aquila d’argento si staccò e cadde per terra ed egli “ciò veggendo isbigottì molto, e disse a’ baroni che gli erano dal lato in latino: <<Hoc est signum Dei>>”. Spronato il cavallo verso il punto in cui la mischia era più furiosa cadde da prode. 

Non tutti i fuggitivi del contingente manfredino trovarono scampo nella fuga perché “la maggior parte di loro s’imbatté nelle spade dei nostri”. La battaglia svoltasi su un tratto pianeggiante piuttosto ampio della campagna beneventana: dall’attuale contrada San Marciano e Pezza Piana, fino alla contrada S. Chirico, Acquafredda e Cammarelle, si concluse al tramonto di venerdì 26 febbraio 1266. Per Carlo il risultato fu straordinario e le perdite del nemico ingentissime. Il numero di prigionieri fu altissimo, tra questi comparivano nomi eccellenti quali: Giordano d’Anglano, Bartolomeo Lancia e Pierasino “perfidissimus Gibelline factionis auctor”.

Finita la battaglia la soldataglia Angioina con una ferocia inaudita mise a ferro e fuoco la città di Benevento perché rimase fedele a Manfredi. Non si contarono le rapine, le distruzioni e gli assassini, addirittura furono violentate le monache nei conventi e l’arcivescovo Romano Capodiferro fu percosso perché era stato amico e confessore del re Svevo. Il Pontefice Clemente IV quando venne a conoscenza di tante e tali atrocità, rimase sconvolto e scrisse una lettera di protesta a Carlo per condannare quanto avvenuto.

Il riconoscimento e le sepolture

La sera della battaglia non si sapeva se Manfredi fosse morto sul campo o fuggito via ma la cattura del suo cavallo costituiva un indizio della sua morte. Il cronista Villani nella sua cronaca presenta la diceria leggendaria secondo la quale un ribaldo beneventano deposto il corpo nudo di Manfredi sulla schiena di un asino si aggirava per le vie di Benevento gridando: “Chi accatta Manfredi, chi accatta Manfredi?”. La notizia è falsa in quanto il cadavere di Manfredi fu ritrovato la mattina di domenica 28 febbraio sul campo di battaglia, nudo perché certamente spogliato da sciacalli. Egli fu riconosciuto per le sue fattezze fisiche: aveva il corpo pallido, i capelli lunghi biondi, viso gentile e delicato. Carlo, che non lo aveva mai visto, per avere assoluta certezza che quello fosse il corpo del re Svevo fece raccogliere tra i prigionieri quanti gli erano stati più vicini perché lo riconoscessero. Quest’ultimi radunati in catene intorno al cadavere lo riconobbero, anzi secondo Malaspina, cronista di parte guelfa, Giordano di Anglano in singhiozzi e con le mani incatenate sul viso esclamò: “Oh! Mio re!”.

Il nuovo sovrano diede disposizioni per la sepoltura del suo avversario e ciò avvenne nei pressi del ponte della Maorella senza oneri religiosi, perché scomunicato, sotto una motta d’onore cioè un tumulo realizzato con sassi deposti da ogni singolo cavaliere. Nei primi giorni di maggio, in piena notte e all’insaputa di tutti, la sua sepoltura fu violata e il suo corpo fu abbandonato fuori il territorio della Chiesa, probabilmente lasciato insepolto là dove il fiume Tammaro si getta nel Calore, nel tratto chiamato Verde .

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1. Il tradimento di Riccardo di Caserta è confermato da alcuni documenti coevi. Il primo di questi, vergato poche ore dopo l’evento, indica il Conte di Caserta come amico di Carlo d’Angiò. Il secondo invece è dello stesso Carlo il quale chiama nostro caro amico il Conte di Caserta. O. A. Bologna, Manfredi di Svevia. Impero e Papato nella concezione di Dante, pg. 150;

 2. Ib., cap. VI, nota 14, pg. 151;

3.  G. Iorio, La battaglia di Benevento (26 Febbraio 1266) nei cronisti coevi, pg. 10-11;

4. La somma dei due eserciti supererebbe i ventitremila uomini. La cifra sembra esser esagerata se si considera che in età Sveva l’intera città di Napoli, con i suoi casali, non raggiungeva i trentamila abitanti. Ib., pg. 11;

5. G. Villani, autore della Nova Cronica, non soltanto esagera sullo scontro vero e proprio, ma si permette addirittura di riportare frasi che i protagonisti avrebbero profferito nell’occasione. Come poteva conoscere questi particolari a svariati decenni dai fatti? Probabilmente tutto ciò era frutto dell’elaborazione intellettuale di quanto si poteva filtrare dall’alone leggendario costruito quasi subito intorno al fatto d’arme. Ib., pg. 24-25;

6.  I combattenti avevano sul campo di battaglia un grande carro a quattro ruote tirato dai buoi. Sul carroccio sventolava la propria bandiera per permettere di distinguere a una certa distanza i diversi gruppi e di offrire a chi si trovava disperso il luogo dove ritrovarsi. Sempre sul carro era presente una martinella (una campana così chiamata da san Martino, il protettore dei cavalieri) che suonava l’inizio della battaglia, i trombettieri che ordinavano le marce e le fermate, e un altare per dire la messa. Il carro serviva anche da momentaneo ricovero per i feriti; era difeso da squadre scelte, poiché la perdita del carroccio era considerata l’inizio della sconfitta. C. Frugoni, Medioevo sul naso. Occhiali, bottoni e altre invenzioni medievali, pg. 132;

7.  Per una precisa ricostruzione del fatto d’arme cf. G. Villani, Nova Cronica, cap. IX;

8. G. Iorio, La battaglia di Benevento …, pg. 12;

 9. G. Villani, Nova Cronica, cap. IX;

 10. A ridosso della Battaglia di Benevento sorgono o vengono incrementati dai superstiti dell’esercito Svevo quegli agglomerati che prenderanno i nomi di Pietrelcina, Pagno Veiano, Pesco Sannita e Molinara. Chiari indizi vanno cercati nei dialetti di Pago Veiano e Molinara, nei quali si conservano ancora parole e modi di dire propri di Firenze e dell’Italia settentrionale. Dai francesi a seguito di Carlo, qualche tempo dopo la battaglia, prese il nome un abitato situato sul crinale del displuvio, a destra del Tammaro, San Marco dei Cavoti. O. A. Bologna, Manfredi di Svevia …, pg. 158;

11.  Ib., cap. VII, nota 3, pg. 158;

12.  Carlo in una lettera al Papa del 24 luglio 1266 comunica di voler costruire un monastero in terra beati Marci ulta Beneventum. In un’altra datata 24 luglio 1269 afferma: “in territorio beneventano, dove abbiamo conseguito la vittoria su Manfredi, sulla terra del beato Marco, al di là di Benevento”. Ib., pg. 161 e 165;

13. Tra la contrada San Marciano e Pezza Piana si estendevano i terreni del notaio De Maurellis, dai quali certamente deriva la denominazione del ponte della Maorella. La consuetudine di nominare i ponti o tratti di fiume con il nome dei confinanti è ancora viva sia a Benevento sia in provincia. Secondo il prof. O. A. Bologna da parte di quanti sostenevano la causa guelfa il nome di Manfredi, per una singolare damnatio memoriae, non fu mai più pronunciato e per vilipendio fu chiamato “l’ammazzato alla Maorella” o meglio l’ammazzato sui campi del notaio De Maurellis o forse l’ammazzato al ponte della Maorella. L’espressione, in bocca ai parlanti, ben presto è diventata Lo Mazzamauriello, un personaggio leggendario della cultura popolare del meridione. Ib., pg. 168 e 180;

14.  In queste contrade in tempi recenti sono venute alla luce armi e sepolture medievali, delle quali i contadini non hanno mai dato notizia per timore di espropri. Negli anni settanta fu recuperata anche qualche spada consumata dalla ruggine, che a giudizio degli esperti, era ascrivibile al XIII secolo. Ib., pg. 156-157;

 15. Ib., pg. 161;

16. G. Villani, Nova cronica, cap. IX;

17. … biondo era bello e di gentile aspetto. Purgatorio III, 107;

18. Clemente IV con una missiva datata 26 aprile 1265, indirizzata a Carlo, stabiliva obblighi, diritti e condizioni per ottenere l’investitura siciliana, nello specifico prescriveva un censo dovuto di 8000 once d’oro, più relative sanzioni in caso di inadempienze, e il passaggio in piena sovranità alla Chiesa del territorio Beneventano. G. Iorio, La battaglia di Benevento …, pg. 14;

19. Se ‘l pastor di Cosenza, che a la caccia/di me fu messo per Clemente allora,/avesse in Dio ben letta questa faccia,/l’ossa del corpo mio sarieno ancora/in co del ponte presso a Benevento,/sotto la guardia de la grave mora./Or le bagna la pioggia e move il vento/di fuor dal regno, quasi lungo ‘l Verde/dov’è ‘le trasmutò a lume spento. Purgatorio, III 124-132;

20. L’ultimo tratto del Tammaro, prima che sbocchi nel Calore, dalle persone anziane di Pago Veiano e Pietrelcina fino alle fine degli anni Sessanta del secolo scorso era chiamato Foce Verde oppure Verde, perché è più profondo e l’acqua assume il colore verde. Non lontano da quel tratto fino all’Unità d’Italia correva il confine tra il territorio di Benevento, appartenente alla Chiesa, e il Regno di Sicilia. O. A. Bologna, Manfredi di Svevia …, pg. 169.

Giuseppe Perrina

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