Nella Chiesa di S. Maria Maggiore di Grottaminarda è conservato un complesso scultoreo ligneo, a figure intere, raffigurante la Vergine che raccoglie in grembo il corpo del figlio appena deposto dalla croce e risalente alla prima metà del XVI secolo, di autore purtroppo ignoto.
Secondo la tradizione, non suffragata da documenti, l’opera sarebbe stata commissionata per la Chiesa di San Tommaso d’Aquino da Ladislao II d’Aquino, Marchese di Corato e Barone di Grottaminarda, vissuto tra la fine del XV secolo e la prima metà del XVI secolo.
Nel primo documento noto del 1698 che attesta la presenza dell’opera a Grottaminarda, risulta che la statua faceva parte di un gruppo scultorio composto da almeno tre statue, la Pietà, la statua di San Tommaso e la statua di San Giacomo.
La scultura raffigura la Vergine seduta che conserva e raccoglie in grembo e sulle ginocchia il corpo nudo ed inerme del figlio appena deposto dalla croce. Si tratta di un soggetto artistico che vuole rappresentare il momento temporale immediatamente dopo la deposizione del corpo di Gesù Cristo dalla croce e prima della sua deposizione nel Sepolcro. In ambito italiano il soggetto è noto col duplice nome di Pietà e di Compianto.
La rappresentazione non è riconducibile ad alcun racconto presente sui Vangeli, né sui testi apocrifi che narrano le vicende della vita di Cristo. Si tratta di un interpretazione popolare di ciò che verosimilmente potrebbe essere accaduto subito dopo la deposizione di Gesù dalla croce. Rappresentato con una forte componente emotiva che raccoglie una serie di significati legati alla morte del figlio del creatore. Sappiamo infatti dai testi sacri che al momento della crocifissione e della sepoltura la Madonna era presente accanto al proprio Figlio.
La scultura per fattura e tecniche va datata alla prima metà del XVI secolo, con buona probabilità ai primi decenni del secolo. Il gruppo scultoreo va attribuito ad un laboratorio d’ambito locale che vede attive varie personalità, tra cui due scultori, e di questi almeno uno che conosceva l’anatomia umana e le novità artistiche del tempo, e un decoratore o pittore, ancora legato, in un certo senso, alla tradizione.
Il riferimento artistico più importante è la nota Pietà di Michelangelo. Chi ha scolpito la statua, si era formato nell’arte cosiddetta “cortese” o tardogotica, ma conosceva anche l’opera di Michelangelo, di cui ha cercato di imitare alcuni elementi stilistici e decorativi.
Si riconoscono almeno due mani, una più esperta che ha scolpito il corpo del Cristo e una meno esperta che ha scolpito la figura della Madonna. Una terza mano ha poi realizzato la pitturazione e la decorazione della stessa statua.
Era collocata originariamente in una nicchia sopra l’altare seicentesco della Chiesa di San Tommaso d’Aquino, come da un documento del 1698.
In Ambito religioso sembra che originariamente la statua venisse portata in processione ma poi, in un epoca imprecisata, questa funzione venne meno e la statua venne sistemata in modo stabile nella chiesa di San Tommaso d’Aquino. Veniva “impiegata” durante i riti della settimana Santa, per il cosiddetto “sabburgo”, ovvero l’altare della reposizione del Giovedì Santo (è il luogo in cui, nella liturgia cattolica, viene riposta e conservata l’Eucaristia al termine della messa vespertina del Giovedì santo, la Messa nella Cena del Signore, in Cena Domini. La liturgia prevede, inoltre, che l’altare della reposizione non coincida con l’altare dove si celebra l’Eucaristia). Attorno alla statua e all’altare veniva sistemate le ciotole, o i contenitori, col grano, i cosiddetti sepolcri (ovvero delle ciotole che contengono segatura, stoffa o ovatta su cui, il primo giorno di Quaresima, vengono sparsi dei semi di grano o legumi –lenticchie-; successivamente queste ciotole sono riposte al buio e innaffiate di tanto in tanto cosicché il Giovedì santo, una volta germogliati, si presenteranno in forma di pallidi e fitti filamenti di diverso colore). Successivamente veniva impiegata anche durante i riti del Venerdì Santo, principalmente durante la pia pratica delle “tre ore di agonia”. Dalla fine dell’Ottocento la statua, durante questi riti, venne accompagnata dalle 4 piangenti in cartapesta, che venivano posizionate ai quattro angoli.
Fu lo storico dell’arte Silvano Saccone, all’inizio degli anni Novanta del Novecento, ha riscoprire l’opera e a segnarla alla Soprintendenza per un intervento di restauro che avvenne poco dopo, nel 1994, da parte di Ignazio Collina e Giovanni Palumbo, presso il laboratorio della Certosa di Padula, in provincia di Salerno.
Un pesante e massiccio attacco xilofago, avvenuto all’inizio di questo decennio ne ha predisposto un nuovo intervento di restauro che è stato affidato all’opera del restauratore Luigi La Bella di Bologna, che è intervenuto sia sulla struttura interna della statua, sanandola dall’attacco, sia sulla sua estetica, recuperando alcuni particolari plastici e cromatici che erano stati obliterati durante l’ultimo intervento. Il restauro è durato quasi due anni per un totale di 980 ore.